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STORIE DI TRAM:
"Sposare un tranviere"

La Stampa, 8 novembre 1955

Facevo servizio sulla linea «G», in quei tempi: un tram sgangherato che attraversava due grossi quartieri popolari e si spingeva fino all'estrema periferia della città. Facevo il turno serale, dalle sette alla mezza: una noia terribile, sempre seduto sull'alto sgabello a staccare biglietti e a contare spiccioli. Una sera notai una ragazza che stava seduta sull'unico sedile che era tra il mio posto e la porta di uscita. Mi sembrava una faccia nota; portava un paltoncino rosso scuro e una sciarpa gialla, gli occhi li aveva neri e belli come i capelli, era solo la bocca che lasciava un poco a desiderare perchè veniva avanti a punta come se fosse nell'atto di chi sta per dare un bacio.
Pareva una ragazza simpatica e buona, e allora, in un momento di calma, azzardai ad attaccare discorso. Mi rispose con gentilezza, poi andò avanti per suo conto a dirmi cose che non le avevo chiesto. Si chiamava Vittoria e faceva la camiciaia, nella sua casa, duecento metri oltre il capolinea della periferia. Le piaceva andare in tram. Lavorava tutto il giorno sempre chiusa fra quattro pareti, e allora sentiva il bisogno di girare. Prendeva il «G» e andava avanti e indietro quattro volte tra i due capilinca: spendeva meno che andare al cinematografo e le piaceva di più perchè a vedere un film le si stancava la vista, mentre a vedere sfilare i negozi illuminati le pareva di essere immersa nella vita del gran mondo.
Me la ritrovai al fianco la sera dopo e ancora parlammo. E così avvenne nelle serate che seguirono. Vittoria saliva verso le otto e mezzo quando il tram era quasi vuoto perchè la maggior parte della gente era già rincasata per la cena e ancora doveva uscire per andarsi a divertire. Il suo sedile era sempre libero. Si stringeva nelle spalle per stare più calda" e si accostava alla sbarra d'alluminio del mio posto. Mi diceva quante camicie aveva fatto durante la giornata, poi mi chiedeva notizie del mio servizio. Parlavamo sottovoce, lei tenendo la testa protesa verso l'alto e io tenendola abbassata di fianco alla spalla.
Non facevo più caso alla sua bocca: mi sembrava normale e gli occhi e i capelli invece mi sembravano ancora più belli di quanto m'erano apparsi la prima volta che li avevo notati. Una sera combinammo di trovarci fuori l'indomani pomeriggio che era domenica. Andammo in periferia, da tutt'altra parte della città, con un altro tram, come passeggeri, poi ci inoltrammo per la campagna, a piedi. Come la nebbia si abbassò a velare i contorni delle cose, ci baciammo. Ci chiamammo per nome, con tenerezza, ci dicemmo delle cose che io capivo che erano stupide ma che mi piaceva dire.
Sul tram della linea «G» qualche volta sbagliavo a dare indietro il resto; se i soldi erano in meno la pente brontolava e mi trattava male, se invece erano in più nessuno diceva niente e io, alla resa dei conti, dovevo aggiungere all'incasso la differenza, di tasca mia. Ero troppo distratto da Vittoria. Adesso non parlavamo soltanto delle camicie che lei aveva fatto durante il giorno, ma anche di altre cose più interessanti, della casa che avremmo avuto un giorno, per esempio, e dei nostri figli. Lei diceva che non avrebbe potuto essere più felice di cosi: le piaceva tutto di me, il mio nome, la mia faccia, il mio mestiere. « Sembri il padrone del tram, su quell'alto sgabello », diceva con un dolce sorriso Vittoria, e a me sembrava proprio di essere il padrone del tram.
Ma una sera litigammo. Fu una cosa improvvisa, inaspettata e se ne accorsero tutti i passeggeri. Vittoria mi disse che stavo fissando un'altra donna che era di fronte a me e invece io guardavo il vuoto, fuori dal finestrino, i No — le sussurrai abbassando la testa al di sotto della mia spalla — non guardo nessuna donna ». Lei tornò a dire di sì. Andammo avanti per lo spazio di quattro fermate a dire di sì e di no, poi lei si alzò di scatto, disse a voce alta che non sospettava che io fossi così falso e che non mi voleva più vedere. Si mise a scampanellare perchè il tram si fermasse, poi scese, attraversò di corsa la strada, appena in tempo per scansare il tram numero cinque che stava arrivando in quel momento. Prima di ripartire potei vederla salire su quella vettura. Anche il «5» ripartì: andava dalla parte opposta, per un breve tratto sulla stessa, strada, e poi svoltava verso la collina per raggiungere i quartieri alti.
Per una settimana non seppi più nulla di Vittoria. Io mi aspettavo ogni sera di vederla salire al capolinea di periferia ma lei non c'era mai. Ero triste, sempre distratto dal pensiero di lei, sbagliavo di continuo a dare il resto, avrei voluto andarla a chiamare a casa, ma nello stesso tempo non volevo abbassarmi a ciò, perchè era stata lei che se ne era andata dicendo che non intendeva più vedermi.
Una sera sobbalzai sul mio sgabello. Incrociando il numero cinque vidi Vittoria. Era in piedi a lato del manovratore e stava parlando con lui. Mi sentii avvampare di collera, ma non potevo muovermi. Pensai che per trovarsi su quella vettura doveva essere venuta fin dentro alla città a piedi. Allora era proprio decisa a non volermi più vedere. Passai una notte e una giornata agitate, nel tormentoso dilemma se andare o non andare a cercarla. Ma l'indomani capii che Vittoria era già perduta per me: la rividi ancora sul tram numero cinque, parlare con lo stesso manovratore, un giovane piccolo, magro, coi baffetti biondi. Avrei voluto essere controllore dell'azienda tranviaria per salire su quella vettura e, proprio di fronte a Vittoria, fare rapporto al manovratore che contravveniva ad una delle più elementari norme di servizio, parlando mentre guidava. Sarebbe stata per me una delle più grandi- soddisfazioni della mia vita. Ma io ero solo bigliettario, assunto da poco, per giunta.
L'inverno intanto si faceva più freddo. Era un tormento stare sul tram, seduto, per tante ore, con i piedi gelati, le mani intirizzite che non riuscivano a staccare i biglietti e la gente nervosa, sgarbata. Pensavo con malinconia alla dolcezza dell'autunno, quando la temperatura era ancor buona e Vittoria sedeva al mio fianco e mi sussurrava belle parole. Adesso lei girava avanti e indietro, nonostante il freddo, sulla linea « 5 »; sempre in piedi sulla piattaforma anteriore e sempre con le spalle voltate verso il mio tram certo per non vedere me in faccia nai momenti degli incroci. Guardavo la vettura svoltare sulla strada che portava alla col lina e pensavo, con invidia, che Vittoria si sentiva forse orgogliosa dell'uomo che la conduceva a girare con il suo tram per i quartieri alti fra i palazzi più lussuosi della città. Poteva anche darsi che il suo nuovo amore fosse addirittura influenzato dal fascino di quella linea.
Ai primi di gennaio vennero giorni di freddo intensissimo, cadde quasi un metro di neve e il servizio fu interrotto per quarantotto ore; quando le strade furono liberate dalla neve e le vetture provarono ad uscire ci si accorse che era impossibile girare, perchè il gelo bloccava dì continuo gli scambi. Faccm mo riposo per un'altra settima na, poi, finalmente, riprendemmo a lavorare. Avevo desiderio di rimettermi a sedere sul mio sgabello, non sapevo bene perchè. Lo capii quando vidi venire verso il mio tram quello della linea «5». Ero ansioso di rivedere. Vittoria, seppure a fianco di un altro uomo. Ma Vittoria non c'era; il manovratore, sempre quello, magro, biondo, coi buffetti sottili, era solo. Pensai che lei fosse a casa per il freddo, ma non la vidi neanche quando la temperatura aumentò.
Ormai si annunciava la primavera e il ricordo di Vittoria si diluiva in me, era un ' ricordo solamente affettuoso che a volte mi faceva sorridere. Chissà cosa faceva adesso Vittoria. Forse aveva litigato con il manovrateore e si eia messa a frequentare il cinema, oppure aveva tanto lavoro da doveri fare camicie anche di sera.
Sentii parlare di lei all'improvviso, indirettamente, due mesi dopo. Un mattino, mentre ero con altri tranvieri in una riunione sindacale, venne dentro alla sala un guardiafili. «Avete sentito cosa è successo?» disse. « Cosa », chiedemmo noi. « Stanotte uno dei manovratori della linea «5», quello biondo, piccolo, ha tentato di suicidarsi bevendo della tintura ». « Ma perchè? » chiese uno. «Per una donna — disse il guardiafili, e si accostò per raccontare tutto quello che sapeva. — E' una ragazza che aveva conosciuto sul tram, una camiciaia. Lui si era innamorato cotto, ma poi lei lo ha lasciato e s'è messa a fare l'amore con un controllore dell' «H». Si sposa tra un mese. Il manovratore l'ha imparato ieri sera e stanotte ha trangugiato la tintura ».
« Guarda che roba, per una donna! » disse uno. Un altro riprese a parlare della faccenda sindacale che ci stava a cuore. Io pensai al controllore dell'«H» e pensai anche che il tram «H» percorreva tre strade del centro e faceva il giro completo del palazzo reale. Chissà come era contenta Vittoria.